Follia, Dèi e Demoni nella cultura greca.
Apr 19, 2014 8:55:17 GMT
Post by Ida S. on Apr 19, 2014 8:55:17 GMT
Come non subire il fascino intramontabile dell’Antica Grecia? Insuperabile sotto ogni punto di vista: non solo per la maestosità e l’imponenza architettonica dei templi innalzati in onore dei loro Dèi, ma anche per la sapienza, la saggezza, l’arguzia dei grandi maestri, poeti e filosofi che, con le loro opere, divennero immortali, come immortale resta una cultura a cui l’occidente deve molto, ancora oggi, cosa che credo fermamente, e di cui sono ancora più convinta leggendo quelli che posso considerare solo monumenti letterari intramontabili, come le tragedie di Eschilo, Sofocle o Euripide, o le opere di Platone, di Aristotele, di Omero, di Saffo, di Mimnermo… Citarli tutti sarebbe impossibile e senza dubbio riduttivo, perché l’immensità e la grandezza di questi colossi meriterebbe fiumi di parole. Penso che in Grecia non sia semplicemente nata la filosofia, ma anche un modo tutto particolare di studiare l’animo umano con una sensibilità straordinaria, tale da comprendere che l’uomo non è solo ragione ma che a volte prevale una parte nascosta e temuta, che dentro ognuno di noi si agitano pulsioni sconosciute a cui secoli dopo, Freud darà un nome e una spiegazione. Oggi, voglio soffermarmi proprio su questo particolarissimo aspetto della cultura greca, che ritengo molto interessante, e cercare di spiegare come questa intangibile sfera dell’irrazionale sia, per i Greci, legata al divino. Per farlo però, non posso che prendere le mosse dal libro del Professor Giulio Guidorizzi “Ai Confini dell’Anima, i Greci e la Follia”, che ritengo un testo illuminante a riguardo.
Partiamo innanzitutto con il chiederci se per “follia” i Greci intendessero una vera e propria malattia. Dunque, una risposta positiva non sarebbe sufficiente. Il folle è sì un malato, ma è anche chi riesce a vivere un’esperienza al di là dei limiti della ragione, è colui che può stringere un legame diretto con le divinità e quindi comprendere la lingua misteriosa degli dèi, è colui che altera la sua personalità, la sua psiche. In Grecia nasce infatti il concetto di manía, con cui si “identificava il divino furore che sta alla base dell’ispirazione poetica e profetica, e nello stesso tempo il delirio di un ammalato descritto dai medici del Corpus Hippocraticum” (che esamineremo in seguito). Ma procediamo con calma, analizzando ogni aspetto.
“La follia ha in sé qualcosa di profetico”, diceva Euripide, e la cosa ci viene confermata anche dall’origine etimologica delle parole: “Arte profetica” e quindi mantiké, e “pazzia”, cioè maniké. Chi era, quindi, il profeta? Una risposta ci viene direttamente da coloro che ci hanno tramandato la biografia di Euricle, famoso personaggio della Grecia del V secolo ritenuto preveggente “grazie ad un demone che abitava dentro di lui”. Abbastanza chiaro, quindi. Il profeta, il veggente, il sacerdote, uomo o donna che sia, possiede delle qualità o delle doti che gli provengono direttamente dagli dei, e queste divinità risiedono addirittura dentro di loro. Soffermiamoci un attimo sulla natura di queste “qualità”, o queste “doti”, che in verità definirei più sintomi: dissociazione mentale, catalessi, allucinazioni. Ergo, i profeti rivelavano il futuro in stato di estasi, posseduti dal loro dio. La cosa curiosa è che il profeta non è sempre “folle”! Lo è soltanto nei momenti in cui la sua mente si dissocia dal reale per entrare in un mondo allucinatorio. Esperienza non sempre felice, come riscontriamo nelle descrizioni della Pizia, profetessa di Apollo, che “si contorce contro la forza del dio che la possiede”. Dunque lo stato di trance spontanea nella Grecia arcaica era molto frequente. Molto interessante è una particolare categoria di veggenti spontanei, ossia quella dei “ventriloqui”, o “sternomanti”. Tengo a sottolineare, per meglio comprendere, che il ventriloquismo antico non ha niente a che vedere con quello che usiamo intendere noi; non si tratta, cioè, di una “volontaria capacità di articolare le parole con organi diversi della faringe”, ma della presenza di una seconda voce che si manifestava improvvisamente. Gli sternomanti, in particolare, emettevano una seconda voce alterata, considerata quella di un demone, che dialogava addirittura con loro. Fenomeno interessante, dicevo, perché l’alterazione della voce è un sintomo osservato nei casi di possessione demoniaca anche nella cultura cristiana, dove gli ossessi hanno dentro di se la voce del demone che li possiede.
Ma, dopotutto, la follia è uno stretto legame che unisce ritualistica religiosa, alterazione della mente, abbandono della ragione. E non è malattia neanche la follia dei rituali estatici di Dioniso. “Sapienza non è essere saggi”, fa dire Euripide alle sue Baccanti, “beato chi confonde l’anima nel gruppo, posseduto da Bacco”. Però, la follia dionisiaca non è quello stato di trance, quel fenomeno allucinatorio che colpisce all’improvviso, è compagna della vita stessa di quelle donne che vivono ogni attimo a pieno, per offrire una forma diversa di sapienza. Soprattutto, non è follia individuale, ma collettiva e riconoscibile, di natura rituale. Quindi Dioniso non è il dio della follia, Dioniso è follia. Non cerca di prenderne le distanze, ma la accetta nella sua essenza.
Un’altra manifestazione della mente visionaria la ritroviamo nella poesia greca. “Cantami, o Musa”, comincia l’Iliade di Omero. E il tema del poeta visionario “posseduto dalle Muse” è molto caro alla cultura greca. Infatti, la forza creativa è data ai poeti da una misteriosa forza irrazionale tanto che, come dice Platone, “un poeta non è in grado di creare prima di essere invasato e fuori di sé, e prima che la ragione si allontani da lui”.
Fin qui abbiamo esaminato il lato “sano”, per così dire, della follia, quindi una pazzia non intesa come malattia. C’è, però, un altro particolarissimo modello di follia però, ed è quello che andremo ad approfondire adesso.
Vi è chi prova costantemente una strana inquietudine, che lo porta a scappare via dalla propria dimora nel cuore della notte e a fuggire lontano dagli uomini, chi ha allucinazioni ben diverse da quelle dei veggenti, chi si butta a terra in preda ai dolori più atroci, come se fosse stato colpito da un fulmine, chi urla parole incomprensibili.
“Figlia mia, sei tu posseduta da un dio, forse da Pan o da Ecate o ti agiti per i venerabili Coribanti o per la madre montana degli Dei?”, urla il Coro ad una Fedra che entra in scena delirante, sconvolta dall’amore incestuoso che prova verso il figliastro e che non ha il coraggio di rivelare. Ecco dunque un altro aspetto, forse il più terribile e inquietante, della follia: la possessione. Il dio o il demone entra nel corpo del malato, lo dilania dall’interno, senza dargli più pace. Probabilmente questo aspetto è quello che avvicina il folle ad un malato, ma ancora una volta questo concetto è riduttivo. La possessione non è semplice malattia, ma malattia sacra. Il corpo del posseduto è un corpo speciale, perché oltrepassa la sfera del visibile, del concreto, del razionale; al suo interno si agitano forze demoniache invisibili. È si un contaminato, ma un contaminato sacro, perché è la manifestazione di una presenza divina. Essendo dunque malattia sacra, doveva essere curata da un “uomo di Dio”. Esorcisti, guaritori, purificatori… Qui non possiamo fare a meno di notare alcune somiglianze con la tradizione ebraica, se non fosse per un particolare che rende a mio parere la cultura greca straordinaria. Per i Greci, l’espulsione dei demoni tramite esorcismi non ha molto seguito anzi, in età classica non è proprio praticata, dal momento che la forza che si agita nel corpo sacro del malato, divina o demoniaca che sia, appartiene alla sfera del sacro. Dunque non va espulsa, ma ammansita. Nella tradizione ebraica, invece, il demone è una forza ostile, è il male e come tale va estirpato.
Quanti significati possono rientrare, dunque, nella parola follia? Quant’è labile il legame che separa il razionale dall’irrazionale? Follia è quella della Pizia posseduta da Apollo, quella di Medea che uccide i suoi figli, è la rabbia di Edipo contro suo padre, è l’ispirazione dei cantori, sono i fantasmi insanguinati che perseguitano Oreste matricida, sono i riti orgiastici delle Baccanti in onore di Dioniso, ma è anche e soprattutto quella dei malati.
Ed ecco che, in questo “festival della follia”, in questo oscuro baratro della mente, fa capolino la luce della ragione, rappresentata da un medico brillante e razionale, che analizza per la prima volta il fenomeno e tenta di mettere in guardia il popolo dai “ciarlatani, imbroglioni e purificatori”, e dà una spiegazione a quello che ingenuamente si definisce “manifestazione divina”. È Ippocrate che con il Trattato Sulla malattia sacra, parte del Corpus Hippocraticum, esamina i fenomeni della mente e, con tono ironico e trionfante, sfida l’ignoranza dei guaritori e degli esorcisti, ponendo solo e soltanto il cervello al centro della vita psicologica. A proposito dell’epilessia, che rientrava nei “sintomi” della possessione demoniaca scrive:
“Questa malattia non è affatto più divina o più sacra delle altre malattie, ma ha la stessa natura da cui provengono tutte le altre. Poi gli uomini hanno creduto che la sua natura e la sua causa fossero in qualche modo divine per ignoranza e per la sua natura straordinaria, dato che non somiglia per niente alle altre malattie”. Queste parole hanno più o meno l’impatto che avranno quelle di Nietzsche quando sentenzierà la morte di Dio. Distruggono le credenze del popolo, le speranze dei guaritori.
“Ciascuna malattia ha una causa naturale e niente avviene senza causa naturale” e anche la follia, finalmente, rientra nella sfera dell’umano, in particolare nella teoria degli umori: “flegma e bile sono gli umori che fanno ammalare il cervello: chi impazzisce a causa del flegma rimane tranquillo e inebetito, chi impazzisce a causa della bile grida, si agita, si comporta in modo inopportuno.
Posso affermare in tutta franchezza che le pagine del Trattato, così come quelle dell’intero Corpus, sono le più lucide, razionali, laiche e brillanti scritte agli albori della storia della scienza occidentale.
Partiamo innanzitutto con il chiederci se per “follia” i Greci intendessero una vera e propria malattia. Dunque, una risposta positiva non sarebbe sufficiente. Il folle è sì un malato, ma è anche chi riesce a vivere un’esperienza al di là dei limiti della ragione, è colui che può stringere un legame diretto con le divinità e quindi comprendere la lingua misteriosa degli dèi, è colui che altera la sua personalità, la sua psiche. In Grecia nasce infatti il concetto di manía, con cui si “identificava il divino furore che sta alla base dell’ispirazione poetica e profetica, e nello stesso tempo il delirio di un ammalato descritto dai medici del Corpus Hippocraticum” (che esamineremo in seguito). Ma procediamo con calma, analizzando ogni aspetto.
“La follia ha in sé qualcosa di profetico”, diceva Euripide, e la cosa ci viene confermata anche dall’origine etimologica delle parole: “Arte profetica” e quindi mantiké, e “pazzia”, cioè maniké. Chi era, quindi, il profeta? Una risposta ci viene direttamente da coloro che ci hanno tramandato la biografia di Euricle, famoso personaggio della Grecia del V secolo ritenuto preveggente “grazie ad un demone che abitava dentro di lui”. Abbastanza chiaro, quindi. Il profeta, il veggente, il sacerdote, uomo o donna che sia, possiede delle qualità o delle doti che gli provengono direttamente dagli dei, e queste divinità risiedono addirittura dentro di loro. Soffermiamoci un attimo sulla natura di queste “qualità”, o queste “doti”, che in verità definirei più sintomi: dissociazione mentale, catalessi, allucinazioni. Ergo, i profeti rivelavano il futuro in stato di estasi, posseduti dal loro dio. La cosa curiosa è che il profeta non è sempre “folle”! Lo è soltanto nei momenti in cui la sua mente si dissocia dal reale per entrare in un mondo allucinatorio. Esperienza non sempre felice, come riscontriamo nelle descrizioni della Pizia, profetessa di Apollo, che “si contorce contro la forza del dio che la possiede”. Dunque lo stato di trance spontanea nella Grecia arcaica era molto frequente. Molto interessante è una particolare categoria di veggenti spontanei, ossia quella dei “ventriloqui”, o “sternomanti”. Tengo a sottolineare, per meglio comprendere, che il ventriloquismo antico non ha niente a che vedere con quello che usiamo intendere noi; non si tratta, cioè, di una “volontaria capacità di articolare le parole con organi diversi della faringe”, ma della presenza di una seconda voce che si manifestava improvvisamente. Gli sternomanti, in particolare, emettevano una seconda voce alterata, considerata quella di un demone, che dialogava addirittura con loro. Fenomeno interessante, dicevo, perché l’alterazione della voce è un sintomo osservato nei casi di possessione demoniaca anche nella cultura cristiana, dove gli ossessi hanno dentro di se la voce del demone che li possiede.
Ma, dopotutto, la follia è uno stretto legame che unisce ritualistica religiosa, alterazione della mente, abbandono della ragione. E non è malattia neanche la follia dei rituali estatici di Dioniso. “Sapienza non è essere saggi”, fa dire Euripide alle sue Baccanti, “beato chi confonde l’anima nel gruppo, posseduto da Bacco”. Però, la follia dionisiaca non è quello stato di trance, quel fenomeno allucinatorio che colpisce all’improvviso, è compagna della vita stessa di quelle donne che vivono ogni attimo a pieno, per offrire una forma diversa di sapienza. Soprattutto, non è follia individuale, ma collettiva e riconoscibile, di natura rituale. Quindi Dioniso non è il dio della follia, Dioniso è follia. Non cerca di prenderne le distanze, ma la accetta nella sua essenza.
Un’altra manifestazione della mente visionaria la ritroviamo nella poesia greca. “Cantami, o Musa”, comincia l’Iliade di Omero. E il tema del poeta visionario “posseduto dalle Muse” è molto caro alla cultura greca. Infatti, la forza creativa è data ai poeti da una misteriosa forza irrazionale tanto che, come dice Platone, “un poeta non è in grado di creare prima di essere invasato e fuori di sé, e prima che la ragione si allontani da lui”.
Fin qui abbiamo esaminato il lato “sano”, per così dire, della follia, quindi una pazzia non intesa come malattia. C’è, però, un altro particolarissimo modello di follia però, ed è quello che andremo ad approfondire adesso.
Vi è chi prova costantemente una strana inquietudine, che lo porta a scappare via dalla propria dimora nel cuore della notte e a fuggire lontano dagli uomini, chi ha allucinazioni ben diverse da quelle dei veggenti, chi si butta a terra in preda ai dolori più atroci, come se fosse stato colpito da un fulmine, chi urla parole incomprensibili.
“Figlia mia, sei tu posseduta da un dio, forse da Pan o da Ecate o ti agiti per i venerabili Coribanti o per la madre montana degli Dei?”, urla il Coro ad una Fedra che entra in scena delirante, sconvolta dall’amore incestuoso che prova verso il figliastro e che non ha il coraggio di rivelare. Ecco dunque un altro aspetto, forse il più terribile e inquietante, della follia: la possessione. Il dio o il demone entra nel corpo del malato, lo dilania dall’interno, senza dargli più pace. Probabilmente questo aspetto è quello che avvicina il folle ad un malato, ma ancora una volta questo concetto è riduttivo. La possessione non è semplice malattia, ma malattia sacra. Il corpo del posseduto è un corpo speciale, perché oltrepassa la sfera del visibile, del concreto, del razionale; al suo interno si agitano forze demoniache invisibili. È si un contaminato, ma un contaminato sacro, perché è la manifestazione di una presenza divina. Essendo dunque malattia sacra, doveva essere curata da un “uomo di Dio”. Esorcisti, guaritori, purificatori… Qui non possiamo fare a meno di notare alcune somiglianze con la tradizione ebraica, se non fosse per un particolare che rende a mio parere la cultura greca straordinaria. Per i Greci, l’espulsione dei demoni tramite esorcismi non ha molto seguito anzi, in età classica non è proprio praticata, dal momento che la forza che si agita nel corpo sacro del malato, divina o demoniaca che sia, appartiene alla sfera del sacro. Dunque non va espulsa, ma ammansita. Nella tradizione ebraica, invece, il demone è una forza ostile, è il male e come tale va estirpato.
Quanti significati possono rientrare, dunque, nella parola follia? Quant’è labile il legame che separa il razionale dall’irrazionale? Follia è quella della Pizia posseduta da Apollo, quella di Medea che uccide i suoi figli, è la rabbia di Edipo contro suo padre, è l’ispirazione dei cantori, sono i fantasmi insanguinati che perseguitano Oreste matricida, sono i riti orgiastici delle Baccanti in onore di Dioniso, ma è anche e soprattutto quella dei malati.
Ed ecco che, in questo “festival della follia”, in questo oscuro baratro della mente, fa capolino la luce della ragione, rappresentata da un medico brillante e razionale, che analizza per la prima volta il fenomeno e tenta di mettere in guardia il popolo dai “ciarlatani, imbroglioni e purificatori”, e dà una spiegazione a quello che ingenuamente si definisce “manifestazione divina”. È Ippocrate che con il Trattato Sulla malattia sacra, parte del Corpus Hippocraticum, esamina i fenomeni della mente e, con tono ironico e trionfante, sfida l’ignoranza dei guaritori e degli esorcisti, ponendo solo e soltanto il cervello al centro della vita psicologica. A proposito dell’epilessia, che rientrava nei “sintomi” della possessione demoniaca scrive:
“Questa malattia non è affatto più divina o più sacra delle altre malattie, ma ha la stessa natura da cui provengono tutte le altre. Poi gli uomini hanno creduto che la sua natura e la sua causa fossero in qualche modo divine per ignoranza e per la sua natura straordinaria, dato che non somiglia per niente alle altre malattie”. Queste parole hanno più o meno l’impatto che avranno quelle di Nietzsche quando sentenzierà la morte di Dio. Distruggono le credenze del popolo, le speranze dei guaritori.
“Ciascuna malattia ha una causa naturale e niente avviene senza causa naturale” e anche la follia, finalmente, rientra nella sfera dell’umano, in particolare nella teoria degli umori: “flegma e bile sono gli umori che fanno ammalare il cervello: chi impazzisce a causa del flegma rimane tranquillo e inebetito, chi impazzisce a causa della bile grida, si agita, si comporta in modo inopportuno.
Posso affermare in tutta franchezza che le pagine del Trattato, così come quelle dell’intero Corpus, sono le più lucide, razionali, laiche e brillanti scritte agli albori della storia della scienza occidentale.