CAPITOLO 5: NIENTE E’ VERO, TUTTO E’ PERMESSO.
Nov 21, 2014 18:25:13 GMT
Post by Kurtz Rommel on Nov 21, 2014 18:25:13 GMT
Nei capitoli precedenti ho introdotto i 5 principi di Martin: principi che derivano da uno studio filosofico profondo ed articolato, per quanto sotto molti aspetti ancora incompleto, ma con una molto particolare impostazione. Ho parlato anche del dogmatismo di Martin, e di come lui lo vedesse in modo funzionale al suo superamento, per raggiungere una condizione di libertà ed autodeterminazione assolute e totali.
Tutti questi concetti, in apparenza contraddittori, furono espressi da lui in tempi e modi diversi, senza però essere ordinati in un corpus dottrinale unificato e lineare: concetti che, però, sono comunque legati da un filo conduttore unico, per quanto ingarbugliato.
In effetti, data la sua vita personale e professionale, bruscamente troncata da un “incidente” ancora oggi di matrice abbastanza dubbia, è difficile pensare che avrebbe avuto il tempo necessario per riordinare da zero tutta la serie di pensieri ed argomentazioni dottrinali che ha comunque lasciato in eredità.
Per chiarire come ci sia riuscito, almeno in parte, devo fare una premessa di ordine storico, che potrà anche lasciare perplessi ma che ha la sua ragion d’essere nell’esperienza di vita e nelle frequentazioni di questo ad oggi ancora controverso personaggio. Premessa che riguarda la famigerata Setta degli Assassini.
E qua, chi legge potrà giustamente pensare: “Ok, lasciamo perdere e cambiamo argomento… questo ha giocato troppo ad Assassin’s Creed…”. E invece no. Nulla a che vedere con una serie di videogiochi tutto sommato interessanti, ma totalmente di fantasia e peraltro molto approssimativi riguardo al loro contesto.
Martin, nel corso della sua permanenza in Iraq venne in contatto anche con diversi appartenenti alla setta degli Ismailiti. La corrente Ismailita, la seconda in ordine di grandezza tra le varie in cui l’Islamismo Sciita si divide, dà enorme importanza agli insegnamenti esoterici islamici, ed è in contrasto con la corrente subito maggiore, quella dei Duodecimani, per tutta una serie di differenze concettuali sulla natura mistica dell’Imam e del suo modo di porsi rispetto ad Allah.
La mistica Ismailita è, guardacaso, pesantemente influenzata da tematiche gnostiche, manichee e persino neoplatoniche: allo stesso modo contemplano il dualismo comune a molte altre confessioni, pur avendone costruito un’interpretazione molto più spirituale.
Infatti, per gli Ismailiti, l’Islam si basa su una doppia visione: una interiore, impersonata dall’Imam e basata sull’interpretazione mistica ed allegorica del Corano, ed una esteriore, dipendente dalla prima, che viene simboleggiata dal Profeta e dalla Legge.
Molto interessante come venga dato per obbligatorio, dagli Ismailiti, il percorso iniziatico: la Conoscenza, o Ragione, a cui tutti, esseri viventi e non, possono giungere, va acquisita per gradi, partendo dal basso.
Notare un dettaglio: nella tradizione araba in generale la Conoscenza unisce tutta l’umanità, permettendole di raggiungere Allah. Questo concetto, spogliato delle connotazioni tipicamente islamiche, diventa simile ad un altro, e cioè a quello tipicamente gnostico della “salvezza attraverso la conoscenza”, ottenuta attraverso lo studio ed il vissuto personale.
Altro interessante dettaglio è quello della reincarnazione: gli Ismailiti ritengono che ci si possa reincarnare in forma umana, principalmente nei propri discendenti.
All’interno dell’Ismailismo si hanno diversi sottogruppi, di cui il più grande è quello dei Nizariti.
I Nizariti, in passato, furono conosciuti come Setta degli Assassini. La storia è conosciuta: da setta poco conosciuta quale erano, nel 1090 conquistarono la fortezza di Alamut, sotto la guida del loro maestro, tale Hassan I-Sabbah. Ne fecero il loro quartier generale, che divenne una sorta di monastero, al cui interno era in vigore una disciplina ferrea. Gli adepti erano inquadrati in una rigida gerarchia, potendo salire di grado, da Novizio fino a Gran Maestro, solo dopo aver superato numerose prove fisiche, di coraggio, di affidabilità e soprattutto di cultura. Questa setta, estendendo il suo potere in Iran e Siria, crebbe anche nel suo potere politico ed economico, arrivando ad avere altri castelli sotto il suo controllo. Il metodo utilizzato dalla setta per eliminare i nemici era, appunto, quello dell’omicidio mirato: Assassini singoli, o piccoli gruppi, venivano inviati in missioni spesso senza ritorno per uccidere un capo politico o religioso ostile.
La setta, alla fine si estinse: ad oggi esistono dei gruppetti di esaltati che se ne autoproclamano come diretti discendenti, ma si tratta di pure e semplici bugie, senza il minimo fondamento storico, usate per darsi un tono. Oggi, indiscutibilmente, la setta degli Assassini non esiste più, se non come pura memoria storica.
Il termine “assassino” fu coniato in seguito: infatti quando uno di loro era colto sul fatto, veniva ucciso sul posto. La calma con cui affrontavano la morte fece pensare che fossero drogati di hashish, dando origine al loro nome. Infatti il sostantivo “al-Hashīshiyyūn” si traduce come “coloro che sono dediti all’hashish”.
E’ comunque più attendibile l’ipotesi che il termine derivi da “heyssessini”, ovvero “seguaci di Hassan”, e che quindi non sia neanche opera dei loro oppositori. In effetti ha senso: chi erano costoro? Erano appunto “i seguaci di Hassan”. Dopo, a causa del loro modo di porsi di fronte alla morte, potrebbe essere stata data loro la fama (anche dispregiativa) di un’accozzaglia di esaltati tossicomani.
Terminata questa piccola introduzione storica, passiamo alle ragioni per cui Martin ha scelto di appoggiarsi a questa particolare filosofia, per elaborare la sua. Infatti, nel corso delle sue frequentazioni con gli Ismailiti, Martin si rese conto che la loro ideologia aveva molte cose interessanti, e decise di approfondirla, trovando altrettante conferme ai suoi quesiti, e, soprattutto, il modo di dare un’impostazione più razionale ed una fisionomia meno confusionaria alla sua dottrina.
I suoi 5 principi, secondo le sue stesse parole, esprimono anche il senso di una frase, ormai estremamente svalutata e commercializzata, ma che Martin scelse come uno dei principi fondanti della sua filosofia.
" سب ممکن ہے کچھ نہیں صحیح"
ovvero, in lingua urdu,
"Kuch nahin sahih, Sub mumkin hai."
La frase non è altro che il solito, ormai stranoto motto degli Assassini: “Niente è vero, tutto è permesso”.
Perché questa frase, e perché proprio in lingua urdu anziché in un qualsiasi altro dialetto?
Potrà sembrare una semplificazione per dare più colore ad un pensiero, così come si potrà pensare che Martin avesse giocato troppo ad Assassin’s Creed, mentre invece questa scelta ha un ben preciso senso.
Per quanto riguarda la scelta dell’urdu, la spiegazione è semplicissima: è una lingua indoeuropea, parlata anche in vari paesi islamici, quali Oman, Qatar, Arabia Saudita e Bahrein, più India e Pakistan.
Ma soprattutto è la lingua in cui i maestri sufi, cioè gli appartenenti a quella che è la branca più mistica dell’Islam, hanno scritto le loro maggiori opere a partire dal sec. XIII. Logica quindi la scelta di usarla.
Veniamo ora al significato della frase. “Niente è vero”, per Martin, semplicemente significava di non dare mai nulla per scontato, ma di cercare sempre la verità oltre le apparenze. Tutto ciò che ad un primo esame sembra vero, spesso si rivela diverso: è quindi compito di ognuno di noi andare a fondo delle cose, proprio per comprendere la differenza tra ciò che è e ciò che sembra.
Assieme a questo significato, se ne aggiunge un secondo: e cioè quello secondo cui le stesse basi fondanti della mente e della cultura umana sono mutevoli, in quanto si evolvono col tempo. Tutto cambia: la società, la morale, il modo di vivere, la stessa legge: quindi nulla è “vero” in quanto “verità fissa ed immutabile”, ma è sempre e comunque relativo ed in evoluzione, quindi portandoci a doverci impegnare in prima persona per comprenderlo e migliorarlo.
Un concetto tutto sommato banale, ma proprio per questo realistico e pragmatico, come era da aspettarsi che fosse.
Anche il “tutto è permesso”, da parte sua, assume un doppio significato: innanzitutto formalizza l’idea, già conosciuta, della responsabilità: non significa che tutto si possa fare senza vincoli di alcun genere, ma molto più semplicemente che ad ogni azione corrisponde un effetto. In poche parole, vuol dire che l’uomo ha la possibilità di agire in totale libertà tanto per il suo bene quanto per il suo male, senza limiti, ma comunque prendendosi il peso delle conseguenze che ne derivano, buone o cattive che siano.
E’ molto semplicemente il principio del libero arbitrio. E fin qua, nulla di eclatante.
Il suo secondo significato, invece, è più direttamente correlato alla filosofia della setta degli Assassini.
Infatti evidenzia non tanto il principio di responsabilità che deriva dalla libertà di azione, quanto un altro: e cioè che “tutto è permesso” per raggiungere un obbiettivo. Si tratta di una sorta di rivisitazione del vecchio detto “il fine giustifica i mezzi”, quindi molto diverso dal concetto di “responsabilità delle proprie azioni”.
Questo modo di interpretare questa frase è quasi una forma di dogmatismo, che vede la Conoscenza come un fine assoluto e necessario, che deve essere raggiunto con la più totale dedizione e la più totale libertà di azione, senza vincoli (esclusi ovviamente quelli legali… non si può comunque infrangere la legge) e con l’accettazione delle conseguenze dei propri atti.
Quindi, di nuovo, nulla di così rivoluzionario, ma indubbiamente sensato e ben derivato da una filosofia profonda e con solide radici storiche, che ha influenzato profondamente anche molti altri aspetti del pensiero di Martin, a cominciare dalla sua impostazione così dogmatica e gerarchizzata.
E’ infatti molto interessante notare come Martin faccia del dogmatismo, e della apparente sottomissione ad un capo, uno dei fattori portanti della sua filosofia: questa impostazione deriva direttamente da quella della setta. Infatti gli Assassini erano assolutamente e totalmente sottomessi al loro capo, ed all’autorità rivelata della fede, in modo fanaticamente vincolante.
Al contrario, quando uscivano dal loro quartier generale, erano totalmente liberi: o meglio, avevano la più totale libertà di mezzi e movimento, pur di arrivare a compiere la loro missione, che era da rispettare con la più totale dedizione.
Libertà che comportava anche la responsabilità delle proprie azioni: agire in modo corretto avrebbe portato al successo, commettere degli sbagli al fallimento della missione.
Questo modo di agire è stato ripreso da Martin proprio per evidenziare come la necessità di “compiere una missione”, ovvero di raggiungere la Conoscenza, si ottenga solo con l’assoluta dedizione al proprio compito, dedizione che rappresenta quindi una forma di sottomissione, associata però alla totale libertà di azione.
Libertà che deve essere sfruttata nel modo giusto, senza mai ed in nessun caso diventare anarchia.
La libertà di agire, tanto per la setta originaria degli Assassini, quanto per Martin, è solo un mezzo per arrivare al risultato: quindi comporta la debita dose di responsabilità nell’agire per il meglio.
Ecco che si chiarisce ulteriormente il motivo per cui, nel satanismo Gnostico, è così importante questa forma di dogmatismo e di “sottomissione”. Chi intraprende questo particolare cammino, partendo come un semplice novizio, decide di assoggettarsi ad un “capo”, simboleggiato dalla Conoscenza: da lì, col tempo e lo studio, supera diverse prove, esattamente come i novizi della Setta, fino a diventare egli stesso il “capo”, cioè, in questo caso, a ritornare la divinità che è già in potenza.
Il percorso è lo stesso: così come l’Assassino della setta doveva raggiungere il suo risultato, senza deviare o rinunciare, quindi obbedendo ad un ordine impostogli dall’alto, allo stesso modo per Martin ognuno di noi deve fare la stessa cosa. L’ordine non è quello di uccidere una persona, ma di raggiungere la Conoscenza. Chi avrà totale dedizione in ciò che fa potrà avere successo, chi avrà dubbi, ripensamenti, o semplicemente non abbastanza forza per poter andare avanti, commetterà degli sbagli, che lo porteranno al fallimento.
Fallimento di cui il singolo, proprio per non avere avuto vincoli oltre a quello di non perdere mai di vista il suo obbiettivo, è il totale e diretto responsabile.